Nu-Shu “Nu-Shu”, recensione

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Un digipack opaco, nero ed elegante quanto l’arte di Samuel Mello, autore di veri e propri dipinti pronti ad impreziosire una cover art specchio allegorico del popolo Yao, società matriarcale in cui veniva utilizzato il Nu-Shu, una particolare scrittura impiegata dalle donne.

Nu-shu è anche il monicker di un interessante combo salentino formato da Carmine Tundo e Giuseppe Calabrese, giunto al compimento di un’opera in grado di emergere dalla mediocrità, riuscendo a raccontare con eleganza un mondo costruito su suoni ed energia espressiva.

Il disco, licenziato da Rivolta Records, ha inizio con un dolce e cadenzato blues dai contorni roots gospel, immersi in un’arida zona chiusa tra intuizioni indie e contorni cavalcanti e desertici, in cui il calore vocale di Tundo invita l’ascoltatore a chiudere gli occhi e farsi trainare nel vortice musicale vicino al Beck più intimistico. Un avvio perfetto che si allaccia a sonorità alternative mediante il filtraggio di Enemy, i cui suoni profondi regalano spazio alla vocalità avvolgente, crocevia sentito tra armonie d’impatto e cambi emotiv,i saldamente ancorati ai frutti maturati attorno ad un drum set impeccabile.

Si vira poi ben presto verso un territorio distorto e carico di piacevolezza alt-rock; un impianto sonoro alterato e grezzo, in grado di ridefinire arie Muse, parallelamente alle “direzioni” danzanti, che diventano osservative e ponderate con Waiting the sun, per mezzo della quale si ritorna ad una pacatezza emotiva, vicina a certe espressività Chris Cornell, qui inquinato da strutturazioni industrial-nu metal che piaceranno anche a chi ha amato il nuovo corso di Marylin Manson.

L’impostazione sonora pare non avere, e non volere, particolari confini, buttandosi in una curiosa mescolanza stilistica che fa di questo disco un opera godibile e al di sopra della media, proprio come dimostra la tribalistica Radio Fall, da cui emergono forti e marcate sensazioni EEls.

Gli accenni rumoristici aprono poi la strada all’orientaleggiante impostazione della titletrack, ipnotica e fuori linea, ma in grado di trainare l’ascoltatore in un mondo popolato da una controllata confusività, poi mitigata dall’arte visionaria e surreale di Interlude stereo e dall’impronta easy di Stereo ink. Un chiaro incrocio stilistico tra piacevoli guitar solo, aree corali e (com)battenti, le cui spinte sonore trovano il giusto epilogo in End Track, inquieto atto conclusivo.

Un album straordinario, abile nel far sognare e pensare, anche grazie a magici riverberi ed echi sonori, pronti a definire un abbraccio dalle venature Grandaddy, richiamati dalle diluizioni magiche e sognanti dei Nu-Shu.