Orange the juice “The messiah is back”, recensione

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If there is a gaping hole where there should be a soul, you mean nothing at all it all means nothing, we mean nothing

Unico, singolare, esclusivo. Non ci sono mezze parole per descrivere il packaging deluxe di The Messiah is back, seconda opera degli Orange the Juice. Infatti, la band polacca supera ogni attesa, offrendo a fan, collezionisti e curiosi un opera estetica senza eguali. Il disco, raccolto tra le braccia di una custodia cartonata che ricorda la dinamicità dei pop up, è racchiuso (tra caramelle al mou) in una rossa piramide cartonata, in cui icone vintage sembrano voler schiudere l’arte espressiva del sestetto, abile nel raccogliere a sé strutture espressive trasversali. Scheletri emotivi in grado di affrontare una trasversale virata senza confini, in cui coraggio espositivo ed idee fuori dal consueto forniscono il fertile terreno per lunghe suite sonore pronte a raccontare movimenti schizzoidi, multidimensionalità mordente e creatività dinamica.

Sette tracce multi cromatiche, ricche di vitalità stilistica, idee e tecnica, capaci di contemplare un reale abbattimento, non solo dei confini musicali, ma anche della cosiddetta quarta parete, attraverso la quale l’ascoltatore è proiettato tra le partiture intratestuali. Un sentiero folle ai cui margini si ritrova una nuvolare foschia, atta a rendere indecifrabile il contorno, riuscendo a ridimensionare una non-struttura espressiva.

Il viaggio iconico ha inizio tra le pieghe di Romanian Beach, destabilizzante incipit da cui tutto parte. Un piacevole e diversificato insieme di narrazioni brevi, raccontate attraverso la delicatezza del jazz , qui al servizio di strutture in grado di contemplare la vicinanza estetica tra intuizioni heavy, fiati jazzati e sfumature vintage, a cui si affiancano brevi interventi noise, incontrollati ed improvvisi.

La sorprendente ed ispirata verve creativa trova il giusto passo attraverso la straordinaria Summer sea che, con il falso (e curioso) finale iniziatico, pare pronta a lasciare spazio alla dolcezza narrativa dei tasti bianco neri, disturbati, teatralizzati e brutalizzati da percussioni disorientanti, che si vestono da violento grind, alternando la propria essenza con rumorismo inquieto ed angoscianti striature libere. Di certo tra le tracce migliori, il brano si cuce attorno ad una riuscita aurea narrativa, pronta a deformare il suo ego attraverso strutture inattese, calmierate ed infarcite di elementi strutturali che lasciano spazio alla dinamicità battente della sua seconda parte, tra spezie marziali e rimandi alla cinematografia anni’30. L’utilizzo filtrato della voce ci conduce poi nel caleidoscopio tecno industrial prima, e nel più lineare lounge dopo, sino alle venature malinconiche di A Boy whitout a head, fulminea non-canzone, i cui riverberi aprono al free jazz di Report. La lunghissima suite, da cui si estraggono le note del sax tenore, si palesa come pronta a dividere la scena con surreali west southern tripper. A chiudere il disco sono, infine, il delizioso e sussurrato andamento jazz di 997 e una ghost track che, pur non riuscendo (fortunatamente) a sbiancare l’oscurità espressiva di Blowing, dona al disco il suo gran finale.

Un platter straordinario nel suo genere, in grado di regalare un armonico bilanciamento tra contenuti emozionali ed espressivi.

Tracklist

1. Romanian Beach
2. Summer Sea
3. The Message
4. A Body Without A Head
5. Report
6. Blame
7. I Was Wrong