Out South “Dustville”, recensione

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“Un luogo dove raccogliere la vita vissuta, prima di partire per il prossimo viaggio”.

Impolverato ed avvolgente. Ecco a voi il mondo analogico degli Out South quartetto ritrovato ai bordi una immaginifica città, che sembra ricordare l’invisibilità fiabesca narrata da Italo Calvino. Una città di nome Dustville in cui Luca Lo Bianco, Fabio Rizzo, Ferdinando Piccoli e Lorenzo Colella proiettano i loro pensieri attraverso note profonde, incastonate tra un malcelato spirito blues e un intuito narrativo esclusivamente strumentale.
Registrato in presa live, il secondo lavoro della band si schiude all’ombra di un riuscito packaging in digipack, da cui si esalano le prime sensazioni desertiche ed osservative, di certo grazie alle idee di Domenico Argento e alla straordinarie fotografie di Mauro D’Agati, abile nel definire i giusti contorni del mondo narrato.

L’album, promosso dalla sinergia tra Fitzcarraldo Records e 800a Rercords, ha inizio nel migliore dei modi: Holcomb. La straordinaria traccia d’overture impone il suo ritmo emozionale mediante una dolce ridondanza, che sembra ricordare alcuni sampler utilizzati in He got the game dei Public enemy. Un’impostazione ciclica, la cui chiusura sonora ci racconta di un impianto minimale, fornito di riverberi chitarristici ed un uso lineare del drum set.

Dall’album accattivante e ben costruito, (da subito) emergono con naturalezza strutture slide, pronte a definire piacevoli momenti vintage, e note in over lay, che fluiscono libere di vivere un mondo retrò, attraverso divertissement e anime apparentemente free. Proprio da qui sembra ripartire la bass line, ideale nell’infondere profondità e struttura, non troppo lontana da alcune tipizzazioni Ccr.

Il viaggio sonoro prosegue poi con Mali , con la quale ci si sposta verso una sorta di anelata spensieratezza, che si abbraccia a rimiche pseudo- vacanziere, dirette ad uno sguardo rasserenato della realtà. I curiosi rimandi filmici al mondo del primo Elvis conducono poi a Balm, posta tra toniche che fungono da voce narrativa, posandosi su di un pattern vicino ad un certo beat anni’70, ponte verso la divertita Crossroads, piacevole ballad anni’50, in cui il mondo calmierato appare bloccato tra le auree di una magia che ci permetta di ricordare e vivere.

Se poi con Ian emerge una trama più osservativa, le dita scorrono leggere sulle corde della chitarra aprendo una visuale emotiva, che permette all’ascoltatore di viaggiare con i pensieri attraverso musicalità jazz, pronta a palesarsi dall’istinto espressivo che si fa impolverato e desertico prima ( Junk) e ammorbidito e risolutivo poi ( Up).

Un disco, dunque, che apre lo sguardo a sonorità da ascoltare e non certo da lasciare sullo sfondo della nostra quotidianità.

Tracklist

1. Holcomb
2. Mali
3. Balm
4. Crossroads
5. Ian
6. Junk
7. Red Towers
8. Up