Spiral69 “Ghosts in my eyes”, recensione

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Spiral69, nome ispirato ad un’opera filmica tedesca di stampo hard, rappresenta il progetto solista dell’ex Argine, Riccardo Sabetti, giunto ad una terza opera interessante, soprattutto per le mescolanza di sonorità senza confini che il disco offre. Ad affiancare il deus ex machina sono, come da tradizione, Licia Missori ed Enzo Russo, oltre alla nuovo drumset di Andrea Freda, già presente nei ranghi durante la tournè di No Paint on the Wall.

La band, già apprezzata al tempo da Lou Reed, arriva (dunque) alle stampe con questo nuovo Ghosts in my eyes, titolo incorporeo ed allegorico che racchiude in sé la ricercata e incorruttibile arte degli Spiral69.

L’eterea delicatezza cromatica della cover art sembra voler aprire spazi diluiti alla concettualità nereggiante che popola le liriche dell’ensemble, il cui tipico sound new wave si abbraccia a venature dark e a riflessi malinconici, capaci di delineare un ragionato andamento. Il disco, prodotto da Steven Hewitt e Paul Corkett, si percepisce con un opera multiforme, dalla quale emergono diversificati livelli di lettura che, volenti o nolenti, rimandano ai suoni per i quali i due produttori artistici hanno lavorato nel loro recente passato. Dimostrazione palese dei piacevoli sentori citazionistici sembrano maturare sin dalle prime note di Waves, che trascina l’ascoltatore dentro una spirale di suoni ricercati, rimestati all’interno di stimolazioni anni ’90, portando con naturalezza un’evidente simulacro del mondo Depeche. La traccia iniziatica appare immersa in un interessante ritmo ipnotico, pronto a trovare nelle sue basi elettroniche la forza emotiva per la quale la forma sintetica riesce ad aggrapparsi alla coinvolgente linea di cantato.

Le onde si infrangono poi sulla Nuova vita, in cui il percorso sonico conserva una linearità narrativa, i cui sviluppi iniziali sono mantenuti attraverso piccole porzioni che guardano soffici tinte darkeggianti. Gli spazi divergono deliziosamente verso il grigio melanconico ( No Heart), pronti a unirsi assieme a curiose armonie ( Fake love), in equilibrio narrativo in una struttura sonica (talvolta) vicina al post rock dalle dimensioni dilatate. Se poi Low Suicide, non aggiunge nulla di nuovo al percorso, è con la splendida titletrack che fuoriescono tutti i fantasmi che attraversano gli occhi del narrante. Una chiusura sofferta e coinvolgente dalle cui gocce si rispecchiano le angosce delle tracce precedenti, tra spezie alternative ed un violino perfetto nel suo apporto.

Insomma un disco dalle sonorità mature e tecnicamente ineccepibili, promosso con cognizione di causa dalla sempre più attenta Unomundo e dalla label romana Helikonia, che ha il merito di credere in mondi inesplorati e vicini al cosiddetto underground.