The rest side “The rough core of things”, recensione

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La mia incontrollata compulsività da compratore di musica, mi avrebbe portato comunque ad incontrare i The rest Side. Infatti è mio costume (forse definibile bulimia da note o curiosità da deformazione porfessionale) acquistare dischi a scatola chiusa, facendomi ispirare dal monicker, dal packaging o dalla cover art. Con rammarico, avendo a disposizione la promo version del disco, non posso ahimè spendere parole sull’arte della confezione di questo The Rough Core of Things, ma non posso evitare di evidenziare l’interessante cover art. Una copertina che, come accennavo in incipit, sarebbe stata per me un inevitabile hook e grazie a quella cover questo disco sarebbe comunque arrivato alle mie orecchie.

Un arte astratta in scala di grigio, spatolata e granulosa, metafora di uno tzunami sonoro che ben si confà al potente sound del trio pugliese, dedito ad uno stoner post grunge d’impatto, mescolato a sentori hc e power metal. Il full lenght, autoprodotto ed autofinanziato, rappresenta una di quelle luminose goccie d’acqua di un fiume in piena, animato da timbri accattivanti e verve muscolare.

Un disco vivo, trainato dalla bella voce di Giuseppe Chiumeo, che, pur possedendo le potenzialità di Corey Taylor, manca di una necessaria dose maggiorata di crudeltà espressiva. È anche vero che le idee della band sono alquanto definite ed efficaci, come dimostra l’ottimo incipit Foolscap, in cui la grezza batteria di Lanotte rimanda a spezie Fu manchu e Slo Burn. L’intensità emotiva che trapela dalla tracklist porta poi in primo piano tracce come Get Proud And Race,caratterizzata da un apparente allentamento di intenti, che subentra nel cuore della track attraverso effetti wau wau ed echi di una chitarra posata sull’ottima sezione ritmica. Proprio da qui si delinea un ritorno subitaneo alle ritmiche potenziate e al contenpo calmierate da concreti giochi sonori in fade. Il lungo brano (circa 7 minuti) appare vario e diversificato all’interno di una dimensione che richiede però una maturazione avanzata delle buone idee proposte. Infatti, a tratti si percepisce una sottile quota di inesperienza sommersa però dalle partiture per lo più convincenti.

Il groove e le sensazioni che fuoriescono da brani come Many Trained Soldiers definiscono una buona chiave di lettura del power trio; backvoice e controcanti fungono da sfondo ad una voce che finalmente si erge laddove dovrebbe rimanere. A tratti Giuseppe ricorda il primo Philip Anselmo, e come il problematico leader dei Pantera, riesce ad assestare una buona linea di cantato, in armonia con la distorsione disturbante, che sorge nella seconda parte del brano, tra ipnosound e ridondanza da sick rock.

Più semplificata appare poi Faded Memory Of My Promises, che si traduce in un inevitabile headbanging, rasserenato da un aurea da stoner ballad, che si rinchiude in una semplicistica e forse eccessivamente edulcorata risoluzione di note. Di miglior fattura appaiono invece No One Knows What Clearness Means e Sot. La prima, caratterizzata da un potente dialogo tra chitarra e sezione ritmica, da cui affiorano le pelli protagoniste di primo piano, come accade anche in Sot, la cui intro è gestita da un genuino drum solo, ultimamente così raro da sentire il sede studio. Il ritmo tra stop & go arriva a governare la rabbia intrinseca, che fuoriesce dagli spartiti, spinta dalla forza centripeta dei piatti pestati con venature industrial, tra inquietudine ed angoscia compositiva aperta ad sofferto finale.

Tracklist

1. Foolscap
2. Get Proud And Race
3. Many Trained Soldiers
4. Faded Memory Of My Promises
5. No One Knows What Clearness Means
6. Saturated People
7. Sot
8. The Joker
9. Vipassana
10. Scrabble