Volver “Octopus”, recensione

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Mi è bastato leggere l’info sheet per capire che avrei dovuto parlare dei Volver, quartetto Modern-Vintage veicolato da un’anima blues, vestita di rock retrò, psichedelia ed elettronica. Una mescolanza stilistica posta sopra un mondo volutamente analogico, un mondo in cui la magia infinita del numero 8 si pone come punto di partenza per un debutto sorprendente.

Le 8 tracce, registrate in 8 giorni, si celano dietro ad un Octopus immortalato nella artistica cover art realizzata da Gianfranco Enrietto Hen, abile nel rappresentare con pochi tratti la concettualità dell’infinito, posto tra le impronte cromatiche di un simbolo metaforico che tende al passato, proprio come il nome che Max Vita e compagni hanno deciso di darsi: Volver.

La band sembra volersi voltare nel guardare all’indietro, portando a sé sensazioni perdute e riuscendo ad evocare inusuali contrasti sonori, posti tra rimandi filmici e sintetizzatori lontani. Il disco, dato a battesimo da Brother, si sviluppa su un impronta wahwah, in cui si arricciano riff minimali, pronti ad osservare l’approccio vocale di Max, convincente nel suo esplorare sguardi espressivi imposti dalla band. Funzionale appare poi l’impostazione lirica, in grado di offrire spazi espressivi alle note, che viaggiano docili verso Sister, piacevole struttura sonora ricca di spunti poppeggianti, ma tutt’altro che banali.

Idee ben bilanciate ed in grado di impreziosire la linea di cantato, si convertono con naturalezza in spazi decisi, proprio come accade in Lies, una tra le composizioni più interessanti del full-length. Infatti, proprio tra le note del brano, nasce, cresce e matura l’aurea osservativa della band. Un percorso in grado di rendere minimale il mondo dei Volver, passeggiando lungo il sottile filo delle note basse per poi alimentare il percorso retrò.

La realtà, racchiusa nello slide digipack, prosegue poi con Need you, che riporta il giusto mood incrociando sensazioni seventies con il mondo (cripto)stoner. Riuscita e ben armonizzata, la track si offre come potenziale anthem, ponendosi tra cambi direzionali, sguardi passatisti e groove immediato, proprio come accade con i battiti di Jack Uait, il cui incipit vale da solo il prezzo del disco con i suoi rimandi Peppers, in grado di mescolarsi ad un “mondo viola” pronto per giocare con sentite profondità, alimentate da influssi e voglia di essere.

A serrare i tentacoli è infine Tarifa ode al mondo andaluso, che segna il tramonto del disco salutando gli astanti con un dolce arpeggio osservativo, costruito su spazi e silenzi che raccontano stralci di un disco riuscito.