Zeffjack “Friendless”, recensione

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Abbandonata la linea di cantato protagonista negli Ep precedenti, mutata la line up e rafforzato il proprio presente grazie alla Rocketman Records, gli Zeffjack caricano sulle proprie spalle un coacervo di sensazioni visionarie, emozionali e filmiche.

Ma facciamo il più classico dei passi indietro: arrivano da Parma e sono attivi dall’ormai lontano inizio millennio, punto di partenza ben divergente rispetto all’oggi, qui definito da istinti creativi indissolubilmente legati ad un rock segnato dal tempo e da “geometrie mentali”. Un ondulato andamento arricchito da gioie e disagio, disegnati sui contorni di una blanda necessità sperimentativa e comunicativa.

L’album, processato in analogico, sin dalle prime battute, riesce a restituire il calore del suono profondo, in cui affondano i denti le toniche di un power trio dedito alla libera interpretazione dei propri istinti musicali.

Il mondo nuovo dei Zeffjack ha Inizio proprio con una corposa linea di basso in cui l’aurea gothic sembra voler riportare le nostre menti alle toniche di Simon Gallup, per poi avviarci verso un atteso stato di ipnosi, andando a ridefinire un’impostazione post, che pone le proprie basi sull’indiscutibile importanza delle pelli, pronte ad intraprendere un fitto dialogo con la sei corde. Un colloquio pronto a farsi rabbioso con Arnold Press, distorta ed impulsiva, definita da nuove e riuscite profondità che avvicinano la band all’alt-post rock canadese. Il suono sezionato e circoscritto da rapidi stop and go, tratteggia un andamento non troppo discosto da alcune metodologie new wave, qui rivisitare da suoni più alternativi.

Con la bass line dominante giungiamo con facilità alle note di Poretti Party, ironica struttura eccessivamente easy listening, che va a ritrarre un anello debole, pronto a ritrovare immediatamente la giusta direzione con Starting light, in cui si ritrova un terreno fertile, ideale per seminare post rock.

Tra le migliori tracce, invece, sento di dover annoverare l’ottima St. Antony’s Fire, la cui introduzione cavalcante offre uno sguardo battente contro una strutturazione intelligibile, da cui emerge la profondità espressiva della partitura. La traccia, spezzata da brevi interludi disorientanti, riesce nel suo complesso a cogliere l’attenzione dell’ascoltatore per trainarlo verso un romanzo senza parole. Una visionarietà accorta, che ritroviamo nelle dilatazioni di Deep impact e tra i blandi campionamenti sussurrati di Number 9, linea guida di un’impalcatura strutturale, figlia dell’alternative anni ’90. Una composizione semplice e rettilinea, ma non per questo di minor valenza, proprio come dimostra il climax espressivo innestato tra i cambiamenti umorali e progressivi, ideali per aprire lo sguardo verso la terminale Fade out, che, con accorto sarcasmo, definisce la reale dissolvenza di un disco che vissuto come un’unica suite descrittiva, nata da continue improvvisazioni.