Bruce Sprinsteen – Born in the U.S.A. (1984)

Quando nel 1984 uscì Born in the USA, settimo album di Bruce Springsteen, l’artista americano era già una star in patria, ma nel resto del mondo chi lo amava e lo conosceva erano più gli addetti ai lavori e gli esperti musicofili dal palato fine, invece che il così detto “grande pubblico”. Complice il lancio del video “trascina stadi” della title track, bombardato continuamente sugli schermi di MTV, nonché (nei primi mesi del 1985) la sua comparsata determinante e memorabile nel video di We are the world (USA for Africa), esplose in poco tempo nel globo la “Boss” mania che, da quei giorni in poi, non avrebbe più avuto soluzione di continuità. Springsteen e la sua sodale E-Street Band, composta da un gruppo di amici-musicisti,  proposero un suono da band navigata e ben rifinito ed un disco pieno zeppo di canzoni radiofoniche, come mai avevano fatto prima, salvo qualche rara eccezione (mi viene in mente soprattutto Hungry Heart da The River). Riguardo a quei brani, alzi la mano chi non si è mai lasciato trasportare, almeno una volta, dal ritmo incalzante di Dancing in the dark o non si è mai appassionato, in qualche modo, alla storia d’amore viscerale del personaggio della ballata I’m on fire. Sia chiaro, almeno un paio fra gli splendidi dischi precedenti di Springsteen (mi riferisco a Born to run e Darkness on the edge of the town) sono artisticamente di un altro pianeta, rispetto a Born in the Usa, ma forse nessun disco sarebbe riuscito ad aprirgli “le porte del paradiso” senza quegli exploit appena citati e ad altri di pari livello come la splendida e malinconica My hometown o la sfavillante Glory days. Affianco alle succitate hit (ben 7 tutti finite diritte in classifica Billboard) c’erano poi altri pezzi che non furono mai singoli, ma che avrebbero facilmente potuto esserlo, come la storia dell’umile carwasher, innamorato perso della sua donna, di Downbound train o la rockeggiante Bobby Jean (dedicata al suo chitarrista Steve “Little Steven” Van Zandt) che tutt’ora viene riproposta live con altissima frequenza. Mitica resterà, per sempre, anche la simpatica copertina di Born in the Usa, con il “lato B” del Boss vestito di jeans e la bandiera americana sullo sfondo. Nell’immaginario collettivo questo è l’album che chiunque vorrebbe ascoltare “a palla” nello stereo di un macchinone, durante un ipotetico viaggio da sogno, coast coast, negli States e, nonostante possa essere definito con gli ambigui aggettivi “pop” o “commerciale”, le storie che racconta confermano invece l’anima da rocker del suo immenso autore. Per noi è il suo secondo Disco da Isola Deserta , dopo avervi già presentato il succitato The River (che trovate in archivio alla voce Rubriche) a suo tempo.