FAB: un rock inglese, d’autore, italiano

Abbiamo di fronte una trasformazione o, più semplicemente, una riconfigurazione spirituale e culturale. Lui è Fabrizio Squillace, cantautore di stampo rock internazionale che vive nel mondo discografico ormai dal 2014 quando esordì con un bellissimo disco dal titolo “Bless”, inglese, romantico, a suo modo futuristico cercando di dare alla forma canzone un respiro poco italiano. Oggi torna in scena e lo fa con un disco che dedica alla riflessione e ai sentimenti, allo sfogo personale e alla consapevolezza: si intitola “Maps for Moon Lovers”, sono 8 inediti ovviamente di quel soft rock inglese che spazia e fluttua in sonorità tinte di elettronica e contorni chitarristici di riff sostenuti, ambienti larghi di orizzonti spesso incontrati al tramonto da cui rapire l’ispirazione per uno sfogo personale e dalla cui esperienza far maturare la rabbia e il momento buono per la riflessione. Il singolo di lancio “How high the Moon” che è insurrezione pacata, quasi resilienza, “The same floor” che è sosta e osservazione, “Sleep” che è viaggio con il suono che diviene metallico e quasi medioso, ma mai incoerente… il benvenuto che parte con questo circolare incedere di voci, un po’ grottesche, fatte di sospiri o aneliti in loop che poco si lasciano identificare e poi il tutto che si apre al pop dai contorni rock con il tipico fraseggio di chitarra elettrica che non smetterà mai di caratterizza tutto il disco a seguire. Masterizzato agli Abbey Road Studios, “Maps for Moon Lovers” è la seconda prova di un artista che si mescola al mondo, al suo mondo che non ha radici popolari per quanto lui provenga da terre fortemente caratterizzate di tradizione. FAB si mescola al mondo. E il risultato ci convince sempre di più.

Mi incuriosisce sempre sapere cosa spinge un artista italiano a cercare l’ispirazione e la visione in altri culture… e in particolare perché quella inglese non così densa di tradizione popolare ma forse assai povera di radici. Un po’ come mescolarsi in un passe-partout modificabile da ogni parte del mondo?

Sono sempre stato attratto dalla cultura inglese, e mi riferisco non soltanto alla lingua e alla musica ma a mille altre sfaccettature che fanno del Regno Unito un luogo assolutamente peculiare. L’odore forte del cibo, il vento che sferza gelido all’improvviso, le file ordinate davanti alle poste. E poi ancora il mare scuro increspato dalla brezza e le pianure verdi e sterminate. Mi viene in mente tanto se penso all’Inghilterra. Per me, in quanto musicista, ha rappresentato un faro, il luogo d’elezione ove attingere idee e stimoli continui. E non si tratta affatto di una infatuazione tardiva e improvvisa. Amo quel luogo da sempre e ho avuto la fortuna di percorrerne le strade davvero molte volte. Mi sento un pò britannico, e per diversi aspetti potrei affermare che probabilmente mi ritrovo più in quella cultura che in quella italiana. D’altronde viviamo tempi di estrema globalizzazione, di commistione di gente e culture differenti. Il melting pot è diventata la regola, solo l’Italia stenta ancora a riconoscere quello che è semplicemente un processo naturale di integrazione e di conseguente evoluzione. La storia ci insegna che laddove due o più culture differenti si sono mescolate in maniera serena e pacifica i prodotti sono stati a dir poco straordinari.

Ho trovato questo disco, dal punto di vista sonoro, poco dinamico. Mi sarei aspettato una maggiore irruenza… che scelte sono state fatte alla base?

È un disco che ha avuto una lunga genesi, quindi rispetto al precedente “Bless” c’è stato sicuramente un maggior ragionamento così come una maggiore ricerca dell’equilibrio.
Probabilmente è un lavoro più composto e ordinato ma a mio avviso non mancano episodi puramente istintivi e che si affidano semplicemente ad una energia emotiva. Ad esempio penso a “How high the moon”, brano viscerale che cresce lentamente fino ad esplodere, e poi ancora a “Shoreditch girl”, traccia costruita intorno ad un ossessivo riff di MicroKorg che nel ritornello si accende fino a divampare. Le scelte alla base sono state tutte all’insegna della sperimentazione, della ricerca di nuovi suoni da accostare a quelli più tradizionali del rock. Prendi un sintetizzatore, combinalo con un organo vintage o un rhodes piano e prova a incastrare il tutto con un riff di chitarra elettrica anni 90. Questo l’esempio migliore, credo, per spiegare l’architettura di un disco. Operazione a dir poco affascinante.

Dietro FAB c’è una band… solida e rodata nel tempo oppure sono turnisti che codificano le tue scelte? In altre parole: FAB è cantautore anche in questo o nella dimensione del suono è parte di un collettivo?

È un progetto nel quale molte persone hanno apportato un contributo determinante e che ringrazierò sempre per avermi aiutato a crescere sia come individuo che come musicista… Attraverso la musica condividi visioni, energie, idee e soprattutto tempo, e ogni musicista con il quale hai la fortuna di collaborare ti restituisce a modo suo qualcosa di prezioso. Penso a Tommy Donato e Alex Tolomeo, che assieme a me hanno percorso tutto il cammino fin qui intrapreso sin dai tempi delle primissime registrazioni di “Bless”, a Bernardo Procopio, chitarrista con il quale abbiamo condiviso la bellissima esperienza dei “Sense” e che si è unito al gruppo da oramai due anni, e infine a Giovanni Calio’, ultimo arrivato ma non meno determinante nel rendere la band attuale un collettivo meraviglioso. Ognuno di loro, sia in fase di creazione che in fase di costruzione dello show, arricchisce il progetto e contribuisce a renderlo unico. Vengo da anni di militanza in una band e non riesco a non intendere la musica in una accezione appunto collettiva”, di comunione e condivisione. Trovo fondamentale che, nonostante si tratti di un progetto solista, ogni membro della band abbia il suo ruolo determinante nella costruzione della musica di Fab, aggiungendo la propria specificità al progetto. E’ proprio questo, a mio avviso, il segreto per scrivere belle canzoni e vivere in serenità all’interno di una band.

Calabria e canzone d’autore. Tornando al concetto di tradizione, da voi che ci sono grandi radici della canzone di protesta, canzone politica, canzone contadina… quanto tutto questo entra nelle tue scritture?

Non credo di aver attinto molto dalla cultura musicale calabrese, per quanto l’abbia sempre trovata affascinante e anche misteriosa. Alcuni canti tipici della tradizione hanno tratti davvero ancestrali, si perdono nella notte dei tempi e possiedono un fascino peculiare. Ma la mia, di protesta, nasce da ben altri luoghi. In “Sands”, ad esempio (brano di Bless, il primo disco) lo spunto sono i “Troubles” e la questione nordirlandese. Tema che, sinceramente, trovo molto più vicino alle mie corde piuttosto che le solite questioni calabresi. D’altronde potrei definirmi europeo prima ancora che italiano, e poi alla fine calabrese. Adoro la Calabria, lo trovo un posto magnifico ma per me gli stimoli vengono da tutt’altra parte. Forse, se vogliamo trovare un elemento che possa accostare la Calabria alla musica di Fab direi che possiamo individuarlo in una certa dose di rabbia che qua e là affiora nei brani che scrivo. Un rabbia storicamente radicata, che puntualmente finisce per condizionare l’atteggiamento generale dei calabresi.

E non hai mai pensato di codificare nel tuo vocabolario qualche grande classico, che so… di Otello Profazio ad esempio?

Sinceramente no, anche perché la musica che compongo è decisamente differente. Parliamo di due galassie molto distanti. Però, a pensarci bene, sarebbe interessante provare
a tradurre in inglese alcuni brani di Otello Profazio provando a rendere il tutto simile a un disco di Woody Guthrie. Del resto Profazio è un menestrello, un “crooner” che attinge alla tradizione popolare calabrese e ne interpreta con originalità i tratti specifici. Risulterebbe assai gradevole, credo, una rivisitazione in lingua inglese del suo lavoro, e ti ringrazio per l’ottimo spunto che mi hai fornito.

Per salutarci vorrei che ci raccontassi di un elemento che trovo assai educato, elegante e sottilmente protagonista in questo disco (forse più di quanto accaduto per il tuo esordio): parlo di quel contributo che la psichedelia da ai suoni per renderli acidi ed eterei. È solo una mia impressione?

Se per psichedelia ti riferisci all’utilizzo di suoni differenti, apparentemente distanti dai tradizionali canoni del rock classico, allora certamente si. Come detto in precedenza c’è stato un lungo lavoro di pre-produzione prima della registrazione di “Maps for moon lovers”, lavoro lungo e spesso non agevole indirizzato alla ricerca dei suoni giusti da combinare. Volevo un sound fresco e innovativo che non dimenticasse il punto di partenza, così abbiamo iniziato a sperimentare con il microkorg cercando suoni larghi e avvolgenti in grado di creare l’ambiente ideale costruire per i brani. Una volta compiuta questa operazione è stato quasi naturale combinare suoni “vintage” con altri moderni ed elettronici e l’incastro è risultato sorprendente per fluidità nonostante l’apparente inconciliabilità. Fare andare d’accordo una nenia elettronica quasi paranoica che ricorda Pacman con un chitarra in puro stile brit anni 90 può sembrare impossibile eppure, credendo fortemente  nel concetto di commistione, l’operazione è riuscita e, a mio avviso, anche bene. E ritengo che quella sensazione  di educazione ed eleganza cui ti riferisci sia dovuta proprio al fatto che questa combinazione ha funzionato perfettamente. E di questo ne vado molto fiero.