Albert Marshall “Black Rooster”, recensione

Tornare a parlare della Red Cat è un poco come tornare nella stessa casa vacanza di sempre. Ritrovarsi, in questo caso, significa (per me) guardare indietro per poter vivere un ambiente conosciuto, in cui riconoscere una comfort zone di cui scrivo sempre molto volentieri.

 

Una carica distorsiva.

Un piacevole heavy sound figlio degli anni’80.

Riff piacevolmente inquinati da mood contemporanei.

 

Ecco i tre vertici iniziali di Black Rooster. Nuova release targata Red Cat Inst Fringe, ancora una volta pronta a dar voce ad Albert Marshall. L’album, piacevolmente strumentale, sin dalle prime battute, riesce a raccontare atmosfere elettrizzanti, in cui l’onda della Nwobhm (At the gates) riesce a mescolarsi con accorte venature attuali. Infatti, è proprio nella contemporaneità che la nuova setilist sopravvive, mostrandoci una naturale progressione di Speakeasy, da cui sembra uscire l’easy rock di The mogwai song e la magnifica hard rock ballad Little rainbow, piacevolmente avvolgente tra i suoi passaggi onirici ed evocativi. Di certo tra le più interessanti composizioni, questo piccolo arcobaleno sembra voler disegnare il sentiero da perseguire, attraverso scale e movimenti soleriani, posti tra virtuosismi accesi, posti al servizio dell’immediatezza emozionale. Il suono indurito prosegue poi tra le svisate di Angry Monkey, impeccabile composizione, in cui sembrano nascondersi striature Deep Purple e citazioni del Sabbathiano Ronnie James Dio.

 

 

A ben ascoltare, il disco sembra rinchiudere in sé idee e citazioni, mostrandosi godibile e narrativo, in grado di cedere a riverberi estrosi (Ice Cream) e a virate battenti, proprio come accade nell’anima speed di Charmander’s nightmare, probabilmente uno dei momenti più alti del climax espressivo, almeno sino a quando non incapperete nella follia funky-blues di Ugly Motherfunker, così divergente e destabilizzante da risultare una gemma ricercata.

A chiudere l’album, di cui contesto solamente un booklet non troppo accattivante,  è l’heavy sound di Armored warfare, in cui ho ritrovato i contorni di una vera e propria anthem definito da uno speed virtuoso, un bridge maideniano e da alcune intercalazioni nu-metal che confermano, se ancora ce ne fosse bisogno, i contorni di un disco davvero convincente.