Hogs “Fingerprints” , recensione

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Scorre un sangue hard nelle vene degli Hogs. Un sangue vivo e necessario in cui il rock focalizza gli intenti della band giunta all’opera seconda dopo il buon esordio di Hogsin fishnets. L’album mixato e masterizzato da Guido Melis si presenta con un coacervo di influssi sonori in grado di convogliare stilemi, cliché e idee che vanno oltre l’atteso. La set list, infatti, riesce sin dalle prime tracce a raccontare narrazioni prive di fronzoli. Un sentiero in cui (sembrerà banale ma) ho notato un sottile cambio di rotta e una fisiologica maturazione sia nel songwriting, sia nella strutturazione delle partiture.
Il disco suona bene, anche grazie alla sua genuina vitalità nutrita da proteine rock, blues, jazz, ( e addirittura) raggae e funk, che si incastonano in un DNA reso limpido proprio da una perfetta regolazione dei volumi ed un riuscito equilibrio tra le parti.

A dare le prime linee a queste nuove impronte digitali è l’interessante incipit Man Size, ideale sentiero che un amante del rock non può che apprezzare, anche grazie a marcati richiami Led Zeppelin, qui allineati a venature Ian Gillian. Impreziositi da continui cambi direzionali, gli spazi narrativi evidenziano un ottimo arrangiamento, in cui lievi rimandi southern offrono aperture ad una sezione ritmica di livello, proprio come dimostrano Jewish Vagabond e Stinking like a dog nella quale l’ascoltatore posa il proprio sguardo tra stilismi Joe Perry e richiami Rhcp di ultima generazione. Attraversando poi la piacevolezza di Mr Hide (che ricorda vocalizzi Paul di Anno) giungiamo ai tempi HR di Australia Summerland e il sorprendente jazz&reggae di Down to the river, inatteso ritmo in levare.

Le sonorità tornano più familiari con il r’n’r di Another down, in cui l’accennato post grunge ci spinge verso Man of the score, aperta da una straordinaria sensazione musicale, resa piacevolmente tridimensionale dalla potente linea di basso, pronta ad appoggiarsi su di un ritmo veloce, cucito al millimetro sul cantato. La traccia, annoverabile tra le più convincenti del full lenght, istiga all’ headbanging e ad il pogo, trainandoci tra stop and go e mutamenti strutturali posti ai confini di Just for one day, ballad emozionale che da sola vale l’ascolto di un prodotto curato e per certi versi radiofonico.

Insomma se proprio dovessi dare un voto in decimi utilizzerei il 7 pieno.