Firenze Rocks e i plebei al Colosseo

Attenzione! Questo articolo è scritto di getto, potrebbe contenere errori di forma e potrebbe offendere persone sensibili.

Questo che state per leggere non è una recensione di un disco, un libro o un live, ma è un articolo che sento di dover scrivere per rendere palese quello che alcuni chiamano “acqua calda”. Un articolo figlio di una pazienza finita. Un articolo che viene dal cuore… ma anche dalla testa, perché ho impiegato più di un anno per decidermi a scriverlo.

Ad onor del vero non so se fosse necessario, e tanto meno, non so se a molti apparirà banale, ridondante o inutile, ma egoisticamente vi dico che lo scrivo per me, un poco come molti artisti fanno con le loro canzoni, che nascono non certo per piacere forzatamente ai propri fan.  Quindi, vesto i miei pensieri (e non quelli della rivista per cui scrivo da vent’anni), e ringrazio Mirko Marchesini dei Sinatras… perché proprio grazie ad un suo post su Facebook ho sentito riaprirsi quella ferita profonda che avevo dimenticato.

Facciamo un passo indietro al giugno del 2018.

Mi trovo nell’enorme prato dell’ippodromo fiorentino per assistere ad una delle mie band predilette , i Volbeat,  pronti a salire sul palco assieme a chi, durante la prima adolescenza, ha fatto ballare i miei neuroni: I Guns N’ Roses.

Mi guardo attorno e migliaia di presenze affollano il prato. Osservo, perlustro e giudico… e ad un primo sguardo mi sento di poter dire che, rispetto ad altri festival, noto una buona organizzazione e ottimi spazi. Partendo dal fondo cerco di avvicinarmi al palco. Supero gente , maxischermi e mixer quando mi ritrovo davanti una transenna nera.

Mi guardo attorno destabilizzato. Non capisco.

Mi sento un ingenuo.

Qualcuno mi guarda e mi dice che quello oltre la transenna è il Pit.

Sbarro gli occhi e dimentico volutamente la mia tipica intercalazione  genovese sostituendo (per darmi un tono) il classico belin con un “E ‘sti cazzi”.

Stringo gli occhi per vedere il palco…non vi so dire quanti metri sia distante…potrei azzardare 100 metri, ma forse sbaglio.

Alzo gli occhi al cielo e penso, convinto, che il sottopalco sarebbe giusto conquistarlo e non pagarlo, ma comprendo che il business muove band importanti proprio come i soldi muovono i grandi giocatori verso le grandi squadre e non certo verso la mia Sampdoria.

Per un attimo mi ritrovo a prendere atto della situazione, ma poi sento il mio nervoso salire a limite di guardia e mi viene da pensare come sia possibile un Pit così esteso. Mi do una risposta per calmarmi: “In fondo cosa è il Pit? È un settore (che credevo per esperienza meno esteso) in cui gli acquirenti disposti a spese folli hanno deciso di andare”.

Dandomi una risposta, mi sento come i plebei al Colosseo: in un lontanissimo terzo anello con le panche di legno marcio.

Orgoglioso della mia origine proletaria, vado al bar per una birra e mi accorgo di essere, per la precisione,  un vecchio proletario.  Mi spiegano che non si può pagare con gli euro ma con i token. Non mi lamento,  perché in fondo se vado a Londra uso le sterline, e il festival appare un poco come un enclave dalla moneta differente. Mi reco serenamente al cambio e come ogni cambio che si rispetti…un minimo di (perdonate il francesismo) “inculatio” c’è e deve esserci.

Una birra costa 3 token e mezzo…(“‘stica 7 euro”), dunque alla cassa chiedo 3 token e mezzo, ma la risposta è: “No, mi spiace, il cambio minimo è 8 token”. Pur avendo avuto 2 di matematica per buona parte del mio percorso da liceale, riesco a fare il veloce calcolo e con educazione rispondo: “ Perdonami ma io vorrei solo una birra, cosa me ne faccio degli altri 4,5 token?”. Al quesito attendo ancora una risposta.

Mi piego al sistema, conquisto la mia birra (peraltro pessima) e prendo la via del prato, quando incontro un venditore di acque e birre che concede bottigliette con il tappo.

Il nervoso pulsa nuovamente al pensiero di poche ore prima, quando ai controlli ho dovuto gettare la mia crema solare (ingenuamente dimenticata nello zaino dal giorni prima) e il tappo della mia bottiglietta. Questa discriminazione legata ai tappi mi accelera la circolazione del sangue. Vorrei tornare ai filtraggi per chiedere informazioni, ma non lo faccio. Grazie al cielo sento Virgin Radio in sottofondo. Mi calmo.

Inizia il live, ascolto con attenzione i Volbeat ed intuisco con blanda serenità il lontano palco, per nulla consapevole che il peggio deve ancora arrivare. Cala il sole e Slash inizia le danze con It’s so easy. Dopo qualche canzone noto accanto a me due ragazze indispettite. Con forte accento veronese sento una delle due affermare con livore: “150 euro per non veder nulla, se avessi saputo che avrei visto il  concerto su uno schermo avrei aspettato l’uscita del blu ray”.

Imperterrito mi do una risposta:“Forse il palco è troppo basso!? Forse è pensato male!? Ma in fondo non sono un attrezzista né un organizzatore, quindi non voglio cadere nel qualunquismo ignorante.”

Ma poi ripenso:“Forse il palco è troppo basso! Boh…di certo è lontano… mio caro plebeo!”

 

 

Il concerto finisce dopo una scaletta straordinaria, mi dicono che il live è stato bellissimo, ma io non posso recensirlo perché del palco ho, per davvero, visto solo delle minuscole ombre.

Rivolgendomi ai miei compagni di viaggio esclamo poco convinto:“Va bene lo stesso, sarà per la prossima volta”… poi toccandomi le tasche ritrovo i token avanzati, il pensiero vola veloce  ai tappi ed esco pensando “L a prossima volta? Ma anche no!”, ma so già che ci cascherò nuovamente, proprio come quelle centinaia di persone sempre alla ricerca di emozioni musicali.

 

No al calcio moderno. No ai festival moderni