Storia della New wave

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3. IL DARK
I padri putativi del dark (o, come dicono in Inghilterra, del gothic) si possono rintracciare nell’hard venato di paesaggi spettrali dei primi Black Sabbath di Tony Iommi e Ozzy Osbourne, nella psichedelia ombrosa e spaziale di A SAUCERFUL OF SECRETS dei Pink Floyd di Roger Waters, nel progressive cupo e macabro dei Van Der Graaf Generator di Peter Hammill, nella disperata malattia sonora e lirica dei Velvet Underground e, infine, nel David Bowie di DIAMOND DOGS e dei primi due episodi della cosiddetta ‘trilogia berlinese’.

Mentre band come i Clash e i Jam ribadiscono, nei testi e negli atteggiamenti, il loro impegno sociale e politico, altri scelgono volontariamente un totale ripiegamento su se stessi e sul loro cupo mondo interiore, dando sfogo a liriche lugubri, tetre, e a suoni ossessivi e opprimenti: la cifra stilistica del dark è un romanticismo minimale, malinconico, oscuro, ma quanto mai ricco di tensione emotiva, che rimette in primo piano la sensibilità sofferente e disperata dell’uomo contemporaneo, non più padrone del mondo, ma, rispetto ad esso e a se stesso, sfasato e maldislocato.

Simbolo di questa visione della vita e progenitore-catalizzatore di tutte le caratteristiche del ‘mood’ dark che abbiamo evidenziato fino ad ora è sicuramente Ian Curtis, leader degli indimenticabili Joy Division, morto suicida a soli 23 anni.

Gli unici due album incisi dalla band, UNKNOWN PLEASURES (79) e CLOSER (80), sono, musicalmente e liricamente, un viaggio senza ritorno negli abissi dell’incomunicabilità e della solitudine interiore, un precipitare freddo e insensato in una sorta di ‘cupio dissolvi’. I testi di Curtis, nello stesso momento in cui appaiono fotografare e descrivere in maniera distaccata uno stato d’animo, in realtà lo vivisezionano analizzandone tutti gli aspetti più reconditi e dolorosi in una sorta di metaforica richiesta d’aiuto al mondo esterno che, già si sa, non verrà raccolta.
La musica si evolve dalle asprezze post-punk del primo album [attraverso una messe di singoli tra cui non si può non ricordare la tenera e disperata “Love will tear us apart” (80)] fino a raggiungere un’essenzialità di suono quasi perfetta in CLOSER: la chitarra è scabra e tagliente, la batteria e il basso inanellano ritmi ossessivi, la voce di Curtis, monocorde ma profonda, è il ‘trait d’union’ di un crescendo memorabile, dove risaltano perle come “Atrocity exhibition”, “Isolation”, “Decades”, “Heart and soul”.

Nello stesso anno d’esordio dei Joy Division, un altro gruppo figlio del punk [ricordiamo gli album di esordio PINK FLAG (77) e CHAIR MISSING (78) intrisi di ricerca minimalista] dà alle stampe un disco seminale nell’elaborazione di un certo tipo di suono new wave e, specificamente, dark: sono i Wire e l’album si intitola 154, dove la fa da padrone un particolarissimo minimalismo sperimentale, nei suoni come nei testi.

In 154 la rozza asprezza e la cruda velocità del punk lasciano lentamente il posto a una musica lenta ed evocativa, cifra stilistica che, accanto ad un feroce e scabroso tormento esistenziale, segnerà il trionfo artistico della cosiddetta ‘trilogia dark’ di Robert Smith e dei suoi Cure, i quali, dopo un esordio di interessante commistione tra pop e punk, THREE IMAGINARY BOYS (79), sprofondano per tre anni in un buio lacerante.

Il mondo si è trasformato in una landa desolata e incomprensibile, dove la natura fredda si aggroviglia a sentimenti sempre più scarnificati e la via d’uscita non solo non c’è, ma non c’è mai stata: è “A forest”, vero capolavoro di una vita e brano guida di SEVENTEEN SECONDS (80), primo album della trilogia. Qui e in FAITH (81) la chitarra si contorce in ‘riff’ taglienti e gelidamente morbosi, le tastiere, più che ricamare in primo piano come nel progressive e nel glam, tessono un sotterraneo ordito di continua tensione, il ‘drumming’ è ossessivamente metronomico e il basso si trasforma, da strumento essenzialmente ritmico, in supporto melodico di malinconica efficacia, mentre i testi ora sussurrano ora gridano la coscienza timorosamente consapevole di un’esistenza sospesa in un mondo assurdo e senza significato.

Tutte queste caratteristiche vengono sublimate all’ennesima potenza nell’ultimo album della trilogia, PORNOGRAPHY (82), vero capolavoro del dark ‘all times’ e disco capace di esprimere una sincera poetica rock sganciata dalla più o meno pedissequa imitazione di modelli altrui. Dal primo all’ultimo brano (citiamo almeno “One hundred years”, “The hanging garden”, “The figurehead”, “A strange day”) è una trasognata cavalcata, a volte drammatica, a volte rassegnata, verso il nulla dell’esistenza.

Sorella (nel senso della condivisione degli intenti artistici) di Robert Smith è Susan Dallion (in arte Siouxsie Sioux), carismatica e attraente leader dei Siouxsie and the Banshees. Il gruppo [che avrà a più riprese tra le sue fila proprio Robert Smith alla chitarra e alla composizione] attraversa la new wave inglese seguendo un suo percorso coerente e lucido che lo porterà dal punk meno immediato e più sofisticato a una brillante e mai banale psichedelia, il tutto retto dalla potente e oscura voce di Siouxsie, capace di far precipitare l’ascoltatore nelle più cupe profondità del suono dark: a tal proposito segnaliamo i primi cinque album [THE SCREAM (78), JOIN HANDS (79), KALEIDOSCOPE (80), JUJU (81), esemplare compendio dell’arte dei Banshees , e A KISS IN THE DREAMHOUSE (82)].

Iniziale deferenza alle sonorità strumentali e vocali di Siouxsie è presente nei Cocteau Twins [ricordiamo gli album GARLANDS (82) e HEAD OVER HEELS (83) e i delicati e.p. LULLABIES (82), PEPPERMINT PIG (83) e SUNBURST AND SNOWBLIND (83), nei quali sono anche presenti soffuse ma elaborate orchestrazioni elettroniche a far da contorno alla suggestiva voce di Elizabeth Frazer].

Simili per impostazione sono i Dead Can Dance, band australiana ma che incide per l’etichetta inglese 4AD: atmosfere gotiche e sepolcrali, utilizzo sapientemente dosato di strumentazione acustica ed elettronica, il tutto accanto a un delicato cantato che a volte si erge a picchi da brivido della ‘vocalist’ Lisa Gerrard, sono le prerogative del loro esordio [l’ e.p. THE GARDEN OF THE ARCANE DELIGHTS (83)], del primo, omonimo, album (84) e del secondo, SPLEEN AND IDEAL (85), che, già nel titolo, coniuga alla perfezione le istanze dark con quelle più sensibilmente romantico-decadenti.

Contemporanee ai Joy Division e ai Cure sono le prime esperienze discografiche dei Bauhaus e dei Killing Joke, altri due gruppi cardine per la definizione del suono gothic. Entrambi sommano, alle istanze glacialmente melodiche delle band che abbiamo citato in precedenza, un ‘background’ fondamentalmente punk nell’approccio, un sottile gusto per certo hard intellettualistico e per certo rumorismo chitarristico ed elettronico, accanto alle inquietanti voci, rispettivamente, di Peter Murphy e di Jaz Coleman.

Dei Bauhaus (la cui caratura tecnica e l’eclettismo stilistico li porta a fondere in un ‘unicum’ tutto loro le splendide peculiarità dark del loro suono) ricordiamo il tenebroso singolo “Bela Lugosi’s dead” (79) (chiari i riferimenti alla letteratura gotica inglese, con basso e chitarra a tracciare lividi percorsi sonici) e gli album IN THE FLAT FIELD (80) (impressionante per l’impatto devastante e per la compattezza sonora), MASK (81) e il malinconico THE SKY’S GONE OUT (82); dei Killing Joke il primo, seminale, omonimo album (80) (apripista per un infinità di suoni che verranno) e il successivo WHAT’S THIS FOR! (81).

La commistione tra sonorità ora oscure, ora rumoristiche, ora addirittura psichedeliche trova la sua più completa realizzazione nel progetto Public Image Ltd., creatura di Johnny Lydon (Rotten, ai tempi in cui era ‘frontman’ dei Sex Pistols). Al, tutto sommato, semplificante approccio al rock dei Pistols, i P.I.L. contrappongono una complessità sonora, frutto della contemporanea assimilazione e rielaborazione su basi più consce del messaggio punk, che di fatto li rende l’ideale ‘prova provata’ dell’intrinseco legame che unisce indissolubilmente, in una sorta di evoluzione darwiniana, il ‘sound’ e il ‘mood’ punk con le più elaborate atmosfere new wave. Di questa band sono imprescindibili i primi, solidissimi, tre album, dal suono ossessivo e claustrofobico: FIRST ISSUE (78), METAL BOX (79) e THE FLOWERS OF ROMANCE (81).

In ultimo citiamo i Theatre of Hate, i Sisters of Mercy, i Cult e i Mission, i cui rispettivi album d’esordio [WESTWORLD (82), FIRST AND LAST AND ALWAYS (85), DREAMTIME (84) e GOD’S OWN MEDICINE (86)] presentano un approccio gothic sì maturo e affascinante, ma, in certi momenti, eccessivamente epico, in una sorta di retoricizzazione del suono dark.